Finalmente se ne parla.
Era ora che emergesse questa noiosissima tendenza e si tornasse alla cucina “cucinata”.
Il web è pieno di tali riflessioni e ormai tutte le varie testate giornalistiche di settore ne discutono ampiamente. Tanti chef stanno annunciando il ritorno ad una cucina più comprensibile, scevra da eccessivi rituali e inutili orpelli: non sono pochi coloro i quali stanno aprendo format più semplici per fare cassa e salvare le stelle.
Il fine dining sta stancando, ma non quello vero: noiosi sono i copia e incolla di tanti cuochi che vogliono stupire a tutti i costi senza riuscirci.
L’alta cucina è altro; essa non passa mai di moda.
Il mondo della gastronomia ha bisogno di chef creativi, come nella moda, nella cultura, nell’ingegneria; ma creativi si nasce o lo si diventa dopo anni di duro lavoro: non bastano corsi, di più o meno lunga durata, o stages presso ristoranti stellati.
Per noi appassionati del settore sono una palestra dove andare e rinnovare le nostre conoscenze, ripulirci da ovvietà, comprendere nuovi abbinamenti, testare nuove tecniche, in definitiva aggiornarci.
Rappresentano il nostro ufficio ricerca e sviluppo di cui ogni azienda necessita per evolversi e crescere, altrimenti ci si condanna ad essere fagocitati dalla concorrenza.
Molti chef dotati di estro e fantasia stanno soffrendo, sono in affanno nel far quadrare i conti e ricorrono a consulenze per sopravvivere tralasciando il territorio e la loro fede.
Per compensare le loro assenze hanno messo a punto menu degustazione blindati dove non si spadella più, così da poter lasciare gli allievi in cucina e poter girare per collaborazioni varie.
Come all’epoca del covid quando ti mandavano a casa gli ingredienti e tu componevi il piatto: diventavamo tutti dei piccoli chef.
Ecco, proprio questo avviene in molte cucine e la conseguenza è l’allontanamento del cliente da questa tipologia di ristorazione.
Ogni pietanza mancava di gusto e personalità, gradevole da vedere ma banale al palato.
Al danno si aggiungeva la beffa: orari prefissati per pranzare o cenare.
Per carità, ognuno a casa propria, fa quel che vuole, ma il rischio è l’emulazione e c’è chi può e chi non può permetterselo.
E poi la consuetudine a ricorrere agli sponsor per sopravvivere, basti guardare le loro giacche immacolate piene di brand: segno dei tempi? Mancanza di competizione?
In conclusione, confesso di non vedere vie d’uscita, probabilmente perché i soldi sono pochi ovunque.
Consentitemi, però, una semplice domanda: non sarebbe meglio tornare a cucinare, a rimettersi il grembiule dopo aver fatto la spesa al mercato dei piccoli produttori così da ridurre il food cost e aumentare la redditività?
A mio modesto parere sarebbe opportuno ricominciare a girare fra i tavoli, sorridere di più, non dilungarsi all’infinito per raccontare le ricette, evitare di sottoporre i clienti a tediosi cerimoniali…
Dobbiamo porre rimedio a tutto questo.
“Invitare qualcuno alla nostra tavola vuol dire incaricarsi della sua felicità durante tutto il tempo ch’essa passa sotto il vostro tetto” affermò un tale Anthelme Brillat Savarin due secoli fa.
Riflettete…