Con molto piacere colgo lo sfogo di Chiara Ciavolich, produttrice abruzzese attenta e sincera, sulla moda del vino biologico e non solo. La volontà di fare chiarezza parte da Francesco Valentini dalla pagine del seguente blog: http://www.chiaragiorleo.com/2018/11/15/lautorevole-paradosso-di-francesco-paolo-valentini-intervista-sul-cambiamento-climatico/?fbclid=IwAR2uWlS43TqRHFUYx9Ze7MUazbaX5-tbx-5ooSJdJ6fG5Hijd2-q1xWwATg
Condivido con estremo piacere e unita’ di vedute l’intervista a Francesco Paolo Valentini sul tema ‘cambiamenti climatici e mode bio’.
Nel 2003, quando entrai legalmente in cantina, tracciandovi la rotta della mia vita, l’azienda agricola era stata appena avviata al protocollo bio.
46 ha di vigneto, 7 di uliveto e 14 di seminativo. In tutto circa 70 ha.
La scelta era stata di mio padre a cui il protocollo era stato proposto da un amico di un amico che di mestiere faceva, appunto, il certificatore bio.
Colui che cioè, dietro pagamento di un corrispettivo da parte dell’azienda agricola, avrebbe certificato il rispetto del disciplinare biologico volto all’ottenimento di un prodotto da processo biologico. Mio padre fu solleticato, come molti ai quei tempi ( ma oggi non è molto diverso) dalla prospettiva economica più che da quella etica. Importante era come è ancora, infatti, il sostegno economico che l’Europa destina a chi si pente e si converte al bio.
Il secondo anno di conversione era il 2004, vendemmia horribilis, per lo meno da me.
Del 2004 ricordo questo: i miei 27 anni, la presa di coscienza e la fine della spensieratezza, 46 ha di vigneto, 7 di uliveto e 14 di seminativo in conversione a biologico, nessuna competenza in fitopatologie e fitofarmaci, piogge costanti primaverili. L’agronomo che scuote la testa. Io che mi spavento. Il fattore dell’epoca che fa scene da esaurimento nervoso per sicura infezione del vigneto che comprometterà tutta la produzione, la sensazione di catastrofe imminente, la paura, io che autorizzo trattamenti convenzionali e dunque contravvengo alla legge, io che passo l’estate successiva negli uffici regionali con il dirigente che mi dice che sono pallida e che è meglio che vado al mare, io che ad agosto 2005 restituisco i circa 80.000 euro di contributo pubblico percepito e giuro a me stessa che mai più aderirò ad un protocollo bio in vita mia e questo perché di una faccia dispongo e voglio che sia autentica.
Quell’anno, infatti, il vino, cha all’epoca facevamo principalmente in cisterne, uscì uno schifo e la svendita fattane a basso prezzo non compensò le perdite di produzione subite. L’annata fu salvata comunque e l’azienda agricola andò avanti grazie al patrimonio di mio padre che fu investito per coprire tutti i costi della scellerata idea della conversione bio e garantire gli stipendi.
Cosi funzionava la mia azienda bio.
Quell’esperienza però fu importante e di forte insegnamento.
Mi insegnò
1 che la qualità del mio prodotto e della mia azienda agricola non la fa un protocollo creato in Europa da chi vuole garantire solo lobby industriali ( come dimostra il nuovo regolamento sul bio appena varato dall’europarlmamento che da una parte concede agli Stati la possibilità di mantenere in vigore soglie meno restrittive per i residui di fitofarmaci o di contaminazione da Ogm e dall’altra permette addirittura produzioni in assenza di suolo ) ma la visione del produttore, cioè la mia , che sta dietro a tutto e che segue da tempo determinati principi di produzione molto più sostenibili del protocollo bio.
2 che non è affatto vero che l’agricoltura biologica non fa uso di pestidici. Non fa uso di pesticidi di sintesi ma di pesticidi naturali il che non garantisce proprio nulla in termini di innocuità per la salute umana e per l’ecosistema.
3 Che il protocollo biologico non è sinonimo, come molti credono o vogliono far credere, di sostenibilità ambientale o sicurezza alimentare , e questo perchè a ridotte produzioni corrispondono maggiori costi con l’uso massiccio, in annate anomale ( come ormai sono quasi tutte a causa del cambiamento climatico), di fitoparassitari ben più pericolosi per l’ambiente che i prodotti di sintesi.
4 Che il cambiamento climatico sarebbe paradossalmente accelerato a voler diventare tutti biologici, come invece auspicano i guru dei naturalmaniaci di questo secolo, poiché si andrebbe incontro alla necessità di avere molto più suolo ( tra il 16 e il 33%) a disposizione per compensare le rese inferiori dell’agricoltura bio con conseguente aumento dell’erosione del suolo di circa il 20% di quella attuale e con buona pace delle foreste e quindi del clima.
5 Che la scelta biologica è ben lontana dall’essere una scelta etica se si pensa a quanto cibo biologico e, a detta di alcuni ‘ etico’ , importiamo in Italia da paesi poveri come il Peru e la Bolivia che producono alimenti naturisti come la quinoa che per anni ha sfamato le loro popolazioni ma che oggi non possono più permettersi dato che la quinoa, specialmente quella bio, deve arrivare come cibo etico sulle migliori tavole degli intellettuali food snob del mondo con buona pace degli ecosistemi locali.
6 Che nel Mondo Vino, le bufale sul biologico per non parlare del biodinamico, hanno da tempo preso il sopravvento con vini biologici che costano spesso la metà dei fratelli convenzionali , con produttori che millantano pratiche colturali e rispetto di limiti che poi non seguono realmente ( altrimenti non si spiega come , anche in annate come la 2018, riescano a produrre e poi commercializzare vini perfetti ) e che la motivazione etica e di tutela ambientale ( che non c’è) la vedono col binocolo poiché nella maggioranza dei casi l’unica vera ragione che sta dietro al pentimento e conversione è una ipocrita strumentalizzazione commerciale non sostenuta da alcuna autentica pratica colturale.
Tanto mi sentivo di chiarire.
Chiara Ciavolich
3 commenti. Nuovo commento
Posso capire esattamente ogni punto di vista, ma non mi sento di condividere. Mi trovo a vivere il mio quarto anno di bio, considerando anche i tre anni di conversione, e per questo 2018 le difficoltà sino state enormi. Ma parlo dal piccolo della mia dimensione che, a differenza di altre, è decisamente più gestibile.
Oltre ai cambiamenti climatici in atto, imputo le difficoltà di oggi a quella che è l’evoluzione tecnologica e l’evoluzione dei gusti. Mi è capitato di vendemmiare 12 anni fa un Montepulciano di un vigneto di 60 anni, e non era per niente comparabile ai cloni reperibili oggi in commercio. Maturazione tardiva, pigmentazione molto più leggera, acidità più importanti, acini grossi e molto molto diradati, buccia spessa e dura. Erano le barbatelle che ci si faceva in casa. Nei racconti di mio nonno, della sua giovinezza, raccontava sempre che su queste uve arrivavano a fare tre o quattro trattamenti l’anno, a volte un paio, vendemmie che risalivano a fine ottobre/inizio novembre, macerazioni di 10/12 giorni con fermentazione spontanee e senza controllo della temperatura visto il periodo in cui si operava. Oggi umanamente tutto impossibile. Questo lo imputo all’ingentilimento dovuto alla selezione clonale spinta ad avere vendemmie precoci, colori più facili nel breve periodo, profumi più fruttati sui vini giovani. Per non parlare degli impianti che vengono rinnovati ciclicamente ogni 15/20 anni e non rispecchiano più quelli che erano i tipici sistemi di allevamento del nostro territorio. Tante cose sono cambiate rispetto a 50 anni fa. Il biologico può funzionare, ma ci sono tante premesse da dover considerare. Altrimenti si fanno solo danni.
Quanto detto da me non vuole contrapporsi a quanto detto, ma vuole solo essere un punto di vista che va considerato nella ampia evoluzione che il nostro territorio ha manifestato.
Pubblico anche qui il mio commento all’intervista, già postato sul profilo facebook della sig. Ciavolich
“Gentile sig.a Ciavolich, sono un giovane produttore di vino abruzzese, nel 2013 ho messo in piedi un’azienda agricola piantando pochi ettari di vigneto, oltre ai quali ho uliveti e seminativi. Sono in biologico fin dal primo giorno, la mia scelta non avrebbe mai potuto essere diversa essendo un convinto ecologista e avendo a cuore la salute mia, innanzitutto (visto che in azienda vivo e lavoro ogni giorno), e dell’ambiente che mi circonda.
La mia esperienza partì dalla curiosità maturata verso alcuni vini che mi emozionarono all’inizio della mia personale ricerca e che mi portò ad approfondire la scoperta dell’agricoltura biodinamica e a conoscerne protagonisti, produttori e agricoltori, a visitare le loro aziende e ad instaurare bei rapporti umani e professionali.
Questo solo per inquadrare da dove sono partito. Le uniche competenze che ho in materia agronomica sono quelle che mi derivano dai corsi che ho effettuato e dalla mia breve esperienza agricola ad oggi; più tutto quello, e non è poco, che mi viene dal confronto con colleghi ben più esperti di me.
Ebbene, ciò premesso, dopo aver preso atto con grande amarezza del pensiero di Valentini come espresso nell’intervista da lei citata, mi trovo ancor più amareggiato a commentare le sue parole. Parole che non si limitano a raccontare, come sarebbe normale e apprezzabile, un’esperienza personale, per quanto spiacevole o perfino disastrosa. Ma che vanno ben oltre la legittima critica e la personale e sempre lecita opinione, per sfociare in quella che, senza se e senza ma, diventa denigrazione di un’intera categoria di produttori, suoi colleghi, dei quali arriva a mettere in dubbio, con una generalizzazione senza giustificazione, serietà ed onestà.
Mi permetta di dirle che offrire un giudizio complessivo sull’agricoltura biologica basato sulla brutta esperienza di un anno, tanto più a seguito di una scelta non convinta ma fatta per ragioni commerciali, come lei stessa afferma, è davvero una pretesa velleitaria.
L’agricoltura biologica non è un “protocollo”, tantomeno è “il” protocollo delle normative europee, ma è un approccio complesso e complessivo a una materia grande come l’infinità di vita che contiene. E’ un modo diverso di vedere l’ambiente, l’ecosistema, il suolo, le piante, gli insetti, perfino i microbi e batteri; è ragionare in modo complesso e anche critico, è non interpretare processi naturali secondo un nesso causa-effetto né pensare di risolvere problemi usando il prodotto “giusto”.
C’è modo e modo di fare biologico, ed ha perfettamente ragione quando critica i prodotti che costano meno dei convenzionali e le grandi industrie che usano il bollino bio solo per sfruttare spazi commerciali senza per questo fare prodotti migliori; quello è un grande limite delle certificazioni, soprattutto di quella del vino bio, tanto che molti seri produttori di vino artigianale non amano inserire quel marchio in etichetta.
Ma non si può fare di tutta l’erba un fascio, non si può giudicare un’intera categoria di prodotti e produttori in base a un’esperienza, mi permetta, davvero limitata nel tempo e fatta tanto per fare.
Ma davvero pensa che praticare – seriamente – biologico sia solo sostituire ai prodotti convenzionali quelli con l’etichetta bio? Per me, ad esempio, vuol dire avere 4 ettari di bosco su 20 aziendali, seminare ogni anno una dozzina di specie vegetali diverse in vigna e uliveto, avere le api in azienda, usare compost maturi, recuperare le acque piovane, usare i residui di potatura, favorire in ogni modo il moltiplicarsi della vita e della complessità dei suoli, delle specie vegetali, degli insetti. Lavorare ogni anno per ridurre le dosi dei prodotti inquinanti come il rame, usare prodotti naturali come tisane e macerati, polveri di argilla, microorganismi.
Progettare di avere degli animali di fattoria, perché ogni aumento di complessità porta un miglioramento del benessere generale dell’ecosistema.
Nel 2018 sono stato al 65% del limite di rame metallo ammesso nel biologico, ho raccolto un’uva che non definirei “perfetta” solo perché la perfezione in natura non esiste (forse è un concetto applicabile ai vini che seguono certi “protocolli” enologici miranti alla perfezione) ma che era sanissima e bellissima. Eppure faccio questo mestiere da soli 5 anni, e mi porto dietro solo la mia voglia di studiare, sperimentare, anche sbagliare, e una grande passione.
Sarò stato fortunato, sicuramente. Ma non sono l’unico. Ci sono vignaioli che hanno usato la metà del rame che ho usato io, eppure i loro vini riescono ad essere sempre buoni, di certo “imperfetti”, ogni anno, con le giuste variabili dell’annata.
Parla di fitofarmaci sistemici che a suo dire sarebbero meno dannosi dei prodotti ammessi in biologico; bene, su questo punto ci sono tesi scientifiche opposte e, comunque, quando si fanno questi bilanci si dovrebbero inserire valutazioni sulla “biodiversità” e sui vantaggi ambientali globali di una certa pratica agronomica rispetto a un’altra, non soltanto sui residui nei suoli.
Infine, è davvero irricevibile, e molto grave, a mio avviso, l’accusa per cui chiunque faccia vini buoni nel 2018 da agricoltura biologica, avrà necessariamente barato sull’uso del rame. E’ una illazione gratuita, priva di ogni fondamento, buttata lì tanto per denigrare chi lavora diversamente da lei.
Mi sorge il dubbio che lei non abbia mai visitato una “vera” azienda biologica, o se l’ha fatto, non aveva gli occhi dell’agricoltore, del vignaiolo, che ogni giorno vive il rapporto con la propria terra e le proprie piante, altrimenti sono certo che non avrebbe potuto scrivere quello che ha scritto.
Non c’era davvero bisogno di lanciare nell’aria accuse e sospetti verso un modo di praticare agricoltura diverso dal suo e che, per inciso, sarà presto l’unico possibile. Di certo c’è che oggi la salute dell’ambiente in cui viviamo è in uno stato comatoso, e che l’agricoltura, non certo quella biologica, è considerata una delle principali cause del suo progressivo deterioramento. Vogliamo insistere nella distruzione?”
Un’analisi perfetta, specchio della realtà del bio. Conosciamo di vicino i guru dei naturalmaniaci, le loro perversione nella coltivazione e la loro mitomania dei risultati. I miei sessanta anni di esperienza nel settore non possono che applaudirla. “Chapeau”!